mercoledì 5 febbraio 2014

François Cavanna... il primo dei "rital"

Ho esitato qualche giorno prima di scrivere di François Cavanna, perchè non mi piace particolarmente commemorare le morti, soprattutto le morti di personaggi "molto vivi". Nulla vieta, però, di celebrare quanta vita ci ha regalato questo scrittore che si è spento il 30 gennaio a 90 anni.
Cavanna non è molto conosciuto in Italia, ma è conosciutissimo in Francia per aver creato uno dei più celebri giornali satirici d'oltralpe: Charlie Hebdo. Uno dei suoi romanzi più celebri, Les Ritals, è stato pubblicato nel lontano 1978 e racconta l'infanzia dello scrittore che, essendo figlio di un immigrato italiano, viveva nel quartiere poverissimo degli italiani recentemente immigrati. Cavanna si è sempre identificato con questo dispregiativo, "rital" utilizzato per indicare gli italiani immigrati. In realtà, avendo la madre francese ed avendo vissuto in un quartiere in cui si parlava forse più dialetto che italiano, la sua identità, anche letteraria, è ben lungi dal corrispondere a uno stereotipo.
Cavanna è sempre stato innamorato della lingua francese, e il suo stile esplosivo l'ha sempre glorificata in tutti i suoi aspetti, da quelli più forbiti a quelli più triviali.
La sua ossessione per lo scritto affascina i bibliofili e i ... bibliomani come me, le sue frasi lunghissime, e piene di incise restano impeccabili sul piano grammaticale. Non resisto alla tentazione di tradurre un breve passo, tratto appunto da Les Ritals (tradotto integralmente da Mariagiovanna Anzil nel 1980 per Bompiani con il titolo di Calce e Martello. La traduzione che segue invece è mia e inedita):

È poco dire che sapevo leggere. Non potevo non leggere. Ovunque, qualsiasi cosa, sempre. Il coperchio della scatola di camembert sulla tavola, durante il pranzo. Tutt’attorno c’era scritto in lettere dorate “Camembert A. Lepetit e figli. Prodotto in Normandia”. In piccolo, in un rettangolo: “Unione dei produttori del vero camembert della Normandia”. E ancora più in piccolo, nelle medaglie: “Gran Premio Esposizione Internazionale di Chicago, 1920”, “Medaglia d’Oro Esposizione Internazionale di Parigi, 1880”, “Fuori Concorso Esposizione Coloniale, Parigi, 1934”… Leggevo tutto, ogni volta che mi capitava davanti agli occhi, cioè trecentocinquantamila volte a pasto, dall’inizio alla fine leggevo tutto, addirittura il nome del tipografo scritto nell’angolino in basso. Era veramente palloso, cercavo di guardare altrove, altrove c’era la scatola di sale Cérébos con scritto il peso netto, l’indirizzo della fabbrica, puro sale marino tot percento di magnesio tot percento di iodio – lo iodio, non c’è niente di meglio per i bronchi, diceva la mamma, c’è il ferro nello iodio e dentro c’è anche la tintura ed è per questo che dà un bel colorito - le medaglie e le esposizioni internazionali, devono essere divertenti, le esposizioni internazionali, tutti quei camembert, quelle scatole di sale, quei biscotti al burro, quei rotoli di carta igienica messi in fila gli uni di fianco agli altri, su dei tavoloni, immagino, e quei signori istruiti, quei presidenti della Repubblica, che ci passano davanti, gravi, e assaggiano con la punta del dito, con la punta della lingua, e fanno un cenno con la testa, assaggiano un'altra cosa, esitano, quello non è per niente male, ma quest’altro, eh eh… e all’improvviso sorridono, in estasi, e non esitano più, questo, ecco un ottimo camembert, un sale di qualità, un’eccelsa cera per parquet! E appuntano, solenni e commossi, la Medaglia d’Oro al petto del valoroso Fabbricante che, ben educato, dice: “No, davvero, è troppo, non c’era bisogno”, smarrito dall’orgoglio e dalla voglia di pisciare, cinque ore in piedi ad aspettare il Presidente senza osare spostarsi è davvero lunga.
Impossibile, quindi, non leggere. I manifesti sui muri. Il “Divieto d’affissione” sui muri dov’è vietato affiggere manifesti, per la legge di non so che giorno del luglio 1881. In un paesaggio, se c’è qualcosa di scritto in un angolo, non vedo di più il paesaggio, leggo la scritta. E sogno a occhi aperti tutto ciò che si può agganciare a ciò che dice la scritta.
Le cose, per me, sono innanzitutto parole. Parole scritte. Se mi dicono “cavallo”, se da solo nella mia testa penso “cavallo”, vedo la parola “cavallo”, stampata, attenzione, non scritta a mano, stampata in stampatello minuscolo, la vedo lì davanti a me, nero su bianco, con il gancio stizzoso della “c” sull’estrema sinistra, le “l”, non troppo gradevoli nemmeno loro, che superano le altre, la “v”pretenziosa in mezzo, le “a” molto femmina, la “o” panciuta seduta sul suo culone. “Cavallo”. Dopo, soltanto dopo, vedo l’animale. Tutto ciò avviene molto più velocemente di quanto lo spieghi. A una velocità pazzesca. Ma ho comunque il tempo per vederla bene, la parola, con tutti i suoi dettagli, la sua fisionomia, il suo cattivo carattere o il suo occhiolino complice. Le parole sono veramente delle amiche per me.