domenica 14 dicembre 2008

Parigi


Arrivo a Parigi al mattino. Il marciapiede della stazione è una prefigurazione di ciò che mi aspetta. Un campionario di esseri umani dagli occhi appiccicosi per la nottata in treno ma illuminati dall'emozione dell'arrivo. I treni per Parigi partoriscono un'umanità pacifica e stupita. Chi viene da fuori dovrebbe sempre attivare gradualmente i propri sensi, per non lasciarsi sopraffare dalla città. Ho elaborato un rito per affrontarla senza farmi fagocitare. Prima di telefonare a chi mi può ospitare per qualche notte, guardo gli occhi degli altri viaggiatori, e cerco di cogliervi il colore del cielo di Parigi. Se il mio bagaglio non è troppo pesante e la luce è propizia mi avvio a piedi dalla Gare de Lyon verso Place d'Aligre, a due passi dalla stazione. Con un po' di fortuna, è il giorno del mercatino. Mi piace guardare Parigi da qui. I colori delle anticaglie made in Taiwan, le espressioni dei venditori assonnati, la luce che si trasforma in polvere mi sorprendono ogni volta. E ogni volta li osservo fino a percepire qualcosa di Parigi che mi era sfuggito fino a quel momento.


Mi concentro sul tatto e tocco tutti gli oggetti esposti sui tavolacci o per terra, scatenando il furore dei venditori. Leggo il braille di questo luogo: sento la trama dei tessuti che non si fabbricano più, faccio scivolare i polpastrelli sui soprammobili di vetro soffiato, sfioro le cianfrusaglie come se fossero gioielli preziosi. Io sono nelle mie dita, e grazie al senso del tatto percepisco la patina che ricopre quelle anticaglie a poco prezzo. Scelgo un oggetto. Un fermacarte di legno caldo e liscio. Mentre l'ho tra le mani, senza farmi notare, lo avvicino al naso. Sento la storia del legno attraverso il suo odore. Poi sfoglio i libri vecchi e ne annuso la polvere. L'odorato mi permette di avvertire per la prima volta l'aggressività della città: sento puzza di Parigi, dei bidoni della spazzatura chiusi male, degli escrementi di cane che costellano i marciapiedi. A questo punto spontaneamente le mie orecchie si lasciano invadere dal suono del francese. Comincio a contrattare i prezzi e ad ascoltare le voci. Parlo a un venditore di quel fermacarte di ebano che so troppo caro solo per sentire la lingua francese che mi riempie la bocca e mi modifica l'espressione del viso. Prima di ripartire mangio qualcosa, nulla di pretenzioso, per completare il mio risveglio sensoriale. Mi fermo in una panetteria o al supermercato che ha infestato per anni la piazza con un'enorme sagoma di Zidane e lo slogan: J'aime bien vous faire gagner, che significa amo farvi vincere, ma anche amo farvi guadagnare. Solo dopo questa complicata iniziazione sono pronta per la città.



Quando il mio rito propiziatorio è efficace, mi permette di entrare in un mondo glassato. Le persone che esplorano, percorrono, vivono Parigi, sono molto diverse tra loro. L'impossibilità di catalogare i loro bisogni ha semplificato il linguaggio usato dalla città per comunicare con loro, ma ne ha conservato la magia. Infatti non basta che le istruzioni per l'uso di Parigi siano chiare e fruibili. Per incontrare i gusti di ogni passante devono essere anche accattivanti. Queste necessità pratiche e comunicative hanno favorito l'enorme diffusione dei gadget metropolitani. I cartoncini variopinti e traslucidi che veicolano i messaggi tra Parigi e i suoi ospiti sono un modo per la città di imporsi seducendo. Il fascino pop della carte orange trasforma quest'abbonamento ai trasporti parigini in oggetto di attenzioni feticiste. Tornati a casa la si conserva, gli adolescenti la incollano sul diario, i superstiziosi la relegano in fondo a un cassetto per non cestinare la propria immagine. La carte orange infatti, ci guarda con i nostri occhi piantati in mezzo a un rettangolino dai colori sgargianti. Ha un potere simbolico e rituale: non scade mai, non è cedibile, è personalizzata con dati anagrafici e firma, segue il viaggiatore fino alla morte. Il numero della tessera ci compenetra a sua volta e diventa noi. All'inizio di ogni mese o di ogni settimana, si compra il coupon delle dimensioni di un biglietto del métro ma dai colori coordinati a quelli della carta, e il modo per prenderne possesso, per renderlo inalienabile, è scriverci sopra il numero della carte orange, il proprio numero, accettando implicitamente di essere riconosciuto come P 185954 ad ogni spostamento. Una volta entrati in questo sistema, si può inserire il coupon nella tasca prevista a questo scopo nel porta-carte orange, e godere dell'ineffabile scintillio dell'ologramma che vi è stampigliato sopra. Molti altri oggetti prodotti dalla città possiedono un magnetismo paragonabile a quello della carte orange. Le schede telefoniche, i biglietti del métro, le tessere di accesso alle biblioteche, le carte fedeltà dei negozi, i settimanali dedicati alle iniziative cittadine ci fanno sentire membri di un club esclusivo. Siamo felici di lasciarci andare alla dimensione meravigliosa e irreale creata da questi oggetti. Ci perdiamo senza timori nel mondo dei collezionisti di carte telefoniche avvertendo oscuramente di essere al sicuro, controllati da un fratello maggiore...


Mi è capitato spesso di intravedere l’essenza di questa città polimorfa in momenti dai quali non mi aspettavo nulla di particolare. Squattrinata come sono, ciclicamente mi si pone il problema di mangiare cibi passabilmente freschi, o almeno non in scatola, senza spendere una follia. A Parigi la combinazione di queste due condizioni è un vero lusso. Ottenerne solo una, invece non è difficile. Spiedini di carne avariata o bruciata sono rintracciabili a un prezzo onesto nei quartieri più malfamati, mentre frutta e verdure freschissime si trovano in certi ristoranti dai prezzi proibitivi. Così quando ho la fortuna di avere una cucina a disposizione mi lancio sui mercati alimentari. Quando decisi di andare per la prima volta al marché Dejean, probabilmente uno dei più conosciuti, sbagliai i calcoli. Quando scesi al métro Château-Rouge mi accorsi che per quel giorno non avrei mangiato. I marciapiedi erano coperti di ortaggi schiacciati e di stracci variopinti. Gli ultimi camioncini stavano partendo rapidamente lasciando le cassette di legno accatastate per terra. Gli stracci che assorbono l'acqua all'imboccatura delle buche di scarico erano coperti di torsoli e di scarti vegetali. Il mercato era finito. Avevo passato un'ora in métro, perciò non me ne andai subito. Cominciai a vagabondare inebriandomi del puzzo di marcio delle verdure calpestate dai passanti. Ma non ebbi il tempo di vivere davvero quel decadimento perché alla fine della strada comparve un magrolino con jeans bucati, giacca di pelle, un grosso cane senza guinzaglio e molte pulci. Sembrava simpatico, forse perché i capelli un po' decolorati fuggivano in tutte le direzioni, in un tentativo di dreadlocks reso vano dalla sua capigliatura liscissima. Ci guardammo un istante, credevo si trattasse di uno dei tanti passanti di Parigi che mi avrebbero cambiato per sempre senza rivolgermi la parola. Invece, nel momento in cui ci incrociammo disse: "Liberté dans la vie." E prima che potessi stupirmi: "et dans l'amour...". Poi cominciò a parlarmi, come se mi conoscesse da sempre: "Vero? La libertà è la cosa più importante." E in piedi in mezzo alla strada, con il cane pulcioso che ci scodinzolava attorno, cominciammo a parlare della libertà. Di libertà, uguaglianza e fraternità. Tuttora, quando penso a Parigi, la mia mente corre verso quest’immagine incongrua.

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